MATERA

 

 

Chi ha detto che i sassi hanno un solo colore? Il grigio inalterabile anche sotto un cielo di lacca azzurra? A chi li sa guardare quelli di Matera hanno il colore dei suoi antichi ospiti, della loro miseria e del dolore, e le sfumature dell’abbandono e del ritorno. Un eterno presente. A patto che l’orecchio colga il mormorio del passato e accompagni l’occhio stupito di chi fruga, si affaccia, si attarda, svolta, sale e scende, e poi risale e ridiscende da un’altra parte, e percorre sentieri che riportano a una vicenda millenaria fin giù, fino a conoscere sé stessi. Di quando eravamo non solo figli  di un’Italia minore ma fratelli di una storia del mondo tra Aleppo e Damasco, Petra e la Cappadocia.

Matera è questa città, col suo cuore di carne rocciosa dai cento volti, protesa con mille pertugi verso vie impervie e ripide scalinate, finestre che si aprono l’una sull’altra sopra porte che chiudono le grotte. Dove le iperboli del bello hanno poco senso. Luogo emozionante, affascinante, straordinario, forse, ma non bello se l’aggettivo raccoglie le generiche percezioni di chi brucia l’occasione di un sapiente guardare e lo rattrappisce in quell’unico termine.

Matera ha l’eco lunga e malinconica di una musica d’altri tempi sopra i gusci sassosi, ora aguzzi ora arrotondati, su cui camminare o riposare se si è stanchi. È la lenta assunzione di un Corpus Christi, il viaggio alle origini, la catabasi, il come eravamo prima del salto in altra e altra civiltà ancora. Un impareggiabile Ecce homo.

L’appuntamento è a Piazza Vittorio Veneto, nella città moderna del Piano dove c’è subito l’affaccio sugli Ipogei. Quindi la sosta sul Belvedere Luigi Guerricchio con vista sull’imbuto dei Sassi, sorvegliati dalla Cattedrale della Civita, il primo nucleo abitato. A sud il Sasso Caveoso, a Ovest il Sasso Barisano, due conche di grotte naturali, scavate dentro, a volte chiuse con lo stesso materiale di scavo o allungate con muri per farne una casa vera. Tremila grotte naturali e artificiali. Dal 1993 la Pompei della civiltà contadina è Patrimonio Mondiale dell’Umanità, nel 2019 sarà Capitale Europea della Cultura.

Il Sasso Caveoso è un costone reticente: il più autentico fra i due, volto alle grotte del paleolitico. Dal basso è un sipario compatto su cui, a malapena, si aprono allo sguardo rughe di roccia, un tempo abitata, e rade pennellate di licheni rugginosi, frammisti a ciuffi di verde gentile. Via via la Casa Grotta del Casalnuovo e l’organizzazione della vita contadina, la Casa Grotta di Vico Solitario, il Grottone Naturale, la chiesa rupestre di San Pietro in Monterrone e, vicino, la straordinaria Santa Maria di Idris e la chiesa di San Pietro Caveoso sulla piazza omonima.

Percorrendo Via Madonna delle Virtù si raggiunge il Sasso Barisano, quasi totalmente ristrutturato: il recupero dei Sassi è cominciato proprio qui. E qui ancora chiese importanti: la Chiesa di San Pietro Barisano, quella di Sant’ Agostino, la chiesa Madonna delle Virtù e San Nicola dei Greci: un complesso monastico costituito da decine di grotte che si distendono su due piani.

Dall’alto lo sguardo precipita sulla Gravina, l’incisione carsica che si estende per otto chilometri tra i Sassi e il Parco della Murgia. Tanti i percorsi per esplorarla o costeggiarla, o per inerpicarsi sulle pareti più o meno ripide dove si affacciano le grotte, le 150 chiese rupestri, gli affreschi bizantini e i villaggi risalenti all'età del ferro. Un contesto selvaggio che rimanda alla genesi dell’uomo. Dal neolitico con “i villaggi trincerati” al medioevo delle comunità orientali monastiche, al ‘400 e ‘500 e, via via, fino all’800, con i monumenti le chiese e i palazzi, la storia ha fatto a Matera le sue prove più temerarie, conciliando un’eclettica e temeraria educazione al gusto.

Nel secondo dopoguerra le condizioni igienico sanitarie rendono quei luoghi “vergogna nazionale” perciò, al rientro da Matera, nel 1950, l’allora Presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, costituisce un comitato interministeriale. Intanto una commissione di undici studiosi propone di avviare gli studi sull’agro e la città, e il sociologo Francesco Friedmann insiste sulla necessità della loro salvaguardia. Dal 1952 iniziano le operazioni di trasferimento verso i nuovi quartieri mentre si leva il grido dolente di chi abbandona il “vicinato”,  l’avvinghiato vivere comunitario, la sola ricchezza tra tanta miseria. Solo nell’86, con la legge 771, si decide “la conservazione e il recupero architettonico ambientale” delle case-grotta.

L’oltremondo materano, privo di consolatori Campi Elisi, e il ricordo dei tanti aggrappati a un brandello di roccia per sopravvivere ispirano nuove allegorie a cinema e letteratura. “Cristo si è fermato a Eboli”, dicono gli abitanti lucani con Carlo Levi, ma Cristo arriva con le immagini filmiche. Ormai privi di vita, i Sassi sono spazi fuori dalla storia, luoghi metafisici consacrati da Pasolini nel “Vangelo secondo Matteo”, con la celebrazione di una  umanità rigorosa, oltre i confini dell’umano. Immersi nel presente, essi testimoniano la dura prova del vivere, nell’attesa del riscatto, del miracolo del restauro definitivo. Da “vergogna nazionale” a palcoscenico di cultura, difendono il grigio inalterabile sotto cieli ora di azzurro lacca ora grevi di pioggia.

Angela Guiso                                                                                                                                          RIPRODUZIONE RISERVATA

 

                                        LONDRA e i suoi pub di scrittori e corsari

 

Lungo le strade umide di nebbia o bagnate dalla pioggia, sotto la luce bianca dei lampioni che illuminano le macchine veloci, evidenti o sfacciate, ecco le insegne ammiccanti dei pub di Londra. Migliaia, anche dopo la crisi. Giovani e non, ragazze sui tacchi alti e con audaci scollature in qualunque stagione, gruppi di colleghi appena fuori dal lavoro, uomini soli con la parvenza del lettore, chini su un libro, subito dopo abbandonato. Questi gli ospiti variegati e probabili a seconda dell’evento: da festeggiare o dimenticare. O per colorare una giornata buia, la solita di tutte le stagioni.

Era la stessa atmosfera che bevevano Graham Greene e Ernest Hemingway nel Dove di Hammersmith, che ancora accoglie i clienti con la nonchalance dei luoghi calpestati dai grandi? E perché di alcuni grandi della letteratura si parla come di frequentatori ora di pub ora di bistrot? Il fascino discreto dell’Europa e un focoso americano come Hemingway. Che idea! Possibile. E sempre accanto allo sciabordio del Tamigi, dentro il pub The Angel pare che Cook abbia pianificato il suo viaggio in Australia e Turner dipinto “La valorosa Téméraire”. Mentre Samuel Pepys e Charles Dickens preferivano il Prospect of Whitby, ancora sulle rive del grande fiume, e risalente al 1520. La più antica taverna di Londra.

Ieri. Oggi il rosso caldo del legno, la luce soffusa dei lampadari, le stampe alle pareti, i cimeli kitsch, l’immancabile birra, il banco della mescita, la scelta fra la rossa, la bionda, la strong o la frappista. Gomiti sul bancone o seduti su sedie o poltrone. Dalle sei e fino alle 23. E poi la ragazza che suona il campanello e la sua voce stridula se per due o tre volte invita gli ospiti di una sera a lasciare il locale. Ed è a Soho, nel pub Coach and Horses che Keith Waterhouse ambienta la commedia di gran valore “Jeffrey Bernard is Unwell”. E l’interprete di allora è nientemeno che Peter ‘O Toole. E sempre a Soho, dove la luce delle insegne inonda le strade ben oltre la mezzanotte, giornalisti e personaggi della tv frequentano quello stesso pub. E lì vicino, a nord di Covent Garden, accosto al British e all’Università, tra i giardini e gli hotel di epoca vittoriana e le piazze eleganti, le numerose librerie testimoniano ancora del gruppo Bloomsbury che, nella casa di Virginia Woolf, sulla Gordon Square, riuniva economisti come Keynes e scrittori come Morgan Forster, e artisti come Duncan Grant, Dora Carrington e Roger Fry.

È la magia dei luoghi a rendere intima un’atmosfera e complici i suoi ospiti. E Londra è città magica, la Londra dei locali e dei teatri, ma soprattutto dei pub chiassosi man mano che l’alcool arriva alla testa, scioglie la lingua e invita alle confidenze e ai patti, anche quelli letterari, e ai sodalizi artistici. Le prove generali della futura gloria dei Rolling Stones e il loro primo concerto furono al Crowdaddy Club dello Station Hotel di Richmond, ora dei The Bull, mentre al Clissord Arms avvenne il debutto dei Kinks.

Chi può negare l’importanza della musica nella vita dei giovani di allora e di sempre? E i diritti di primogenitura stampati nel copyright e nelle list di chiunque abbia respirato quell’aria pungente anche da lontano?

Il fascino perenne di una città che attira giovani da tutta Europa per celebrare i necessari riti di iniziazione. Al mondo anglosassone, alla musica, alla birra, alla letteratura, alle sue leggende, alla nebbia e alla pioggia, ai giardini e alle file infinite e pazienti.

Qui, come nei posti migliori, letteratura è vita. Vita è letteratura. Condita dalla musica. Intrisa di miti, di riti e di teatro.

 

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          MADRID, il Café Gijòn dove tutto sa di arte

 

 

Spazi ampi e gente a fiotti. La Gran Via, le calles parallele in cui si ramifica, i luoghi della cucina insaporiti di jamón serrano e tapas, i bar dei churros immersi nella cioccolata calda. Anche se l’inverno sembra lontano e il sole bagna persone e cose, e in tanti s’illudono dell’estate vicina, mentre è da poco terminata la Semana Santa con i suoi riti coinvolgenti e l’accorata voce maschile che, a un passo da Plaza Mayor, riecheggia note arabe davanti al Cristo più barbuto che è dato vedere. Dietro, la Madonna dolente, il suono grave della banda, gli uomini incappucciati e le dame dai lunghi scialli, appesi ai preziosi fermagli. La folla di turisti e spagnoli, i negozi aperti dalle dieci del mattino, nonostante sia Pasqua, nonostante sia Pasquetta. La luce del giorno e, dopo, una lunga notte immersa nella movida.

Se di poche pennellate può comporsi un quadro, queste possono ritrarre una città. Con i suoi musei d’arte e gli altri del tempo libero e delle passioni. Del calcio e della corrida. Dello stadio Bernabéu e delle note del Puccini di Nessun dorma quando scorrono le immagini di gloria della squadra migliore del 20° secolo. E poi il suono delle nacchere e le figure del flamenco dentro i locali famosi o davanti al Palacio Real, 3418 stanze, emblema dello straordinario passato di uno degli stati più potenti del mondo. Ancora, il Parco del Buen Retiro con i suoi 18 ettari sconfinati. Lontano, gli angoli nascosti sotto i portici, dove cani e barboni convivono silenziosi con la frenesia del vivere.

All’ombra di Puerta del Sol la statua dell’orso sul corbezzolo, simbolo della città, e il flusso di chi si porta da Plaza de Cibeles per Paseo de Recoletos fino al Café più antico di Madrid, dove la cultura non è solo quella scritta da architetti e artisti su muri, libri e quadri perenni, ma è l’argomento del giorno dopo giorno, col naso dietro ai profumi dolci e piccanti, e lo sguardo su una torrija o un boccadillo.

La facciata in marmo e le finiture in legno, le poltrone di rosso granata, le strisce di dipinti famosi, la terrazza sono la cornice del Café Gijón, un’istituzione a partire dal 1888. Partecipe delle stagioni della politica e della cultura, luogo di raccolta di intellettuali al tempo di Franco, amato da García Lorca e Salvador Dalí, visitato da Truman Capote e Orson Welles. Dal 1949 luogo dell’omonimo premio letterario per un’opera di narrativa. Un Café Restaurante che condivide con pochi altri l’appellativo di centenario. Nomi famosi, da Casa Pedro, del 1702, a Botin, del 1725, a Casa Alberto, del 1827 - situata nell’edificio dove visse Cervantes - a Lhardy, del 1839.

Quindi le taperíe, e se le tapas sono di baccalà e accompagnano crocchette e banderillas de atún en escabeche, se la coda di aspiranti avventori arriva fino al marciapiede e l’anno di nascita è il 1860, nessun dubbio! è Casa Labra dove il 2 maggio 1879 Pablo Iglesias fonda, clandestinamente, il Pardido Socialista Obrero Español. La facciata ricurva di legno scuro, contornata dal muro bianco, gli arredi d’epoca, compreso il curioso bancone di zinco, sono anch’essi motivo di richiamo per turisti e residenti.

Ma anche il Bar Museo Chicote si fregia del nome illustre di chi lo ha disegnato nella Gran Via, nel 1931: l’architetto Luis Gutiérrez Soto, campione del razionalismo spagnolo e rappresentante della Generazione del ‘25. Ancora oggi le poltrone in cuoio e tanto legno intorno fanno di sé bella mostra, e l’atmosfera è art déco, mentre la mente corre ai tanti ospiti illustri, da Hemingway, e i suoi reportages di guerra, a Welles e agli esponenti del cinema e dello spettacolo.

 

 

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                                      Per gli incontentabili comunque c'è NAPOLI

 

Miseria e nobiltà. E cultura fino al midollo delle sue cavità sotterranee. Di ogni tipo: letteraria, culinaria e musicale. Anche questa è Napoli, protagonista della Storia d’Italia. L’esempio di Celestino V può bastare. Se l’ex eremita non avesse abdicato a favore di Bonifacio VIII, annunciando “il gran rifiuto” al papato, Dante non avrebbe forse composto la Commedia. Il fatto è che Pier da Morrone si trovava allora dentro le mura turrite del Maschio Angioino, il Castel Nuovo, uno dei simboli della città. E senza Napoli quale Decameron avremmo avuto? Come dire che senza la città partenopea l’Italia sarebbe un’altra.

Città delle contraddizioni, dei mille colori e delle mille paure. “Sole amaro e carta sporca e nisciuno se ne importa e ognuno aspetta ‘a ciorta”. Le parole di Pino Daniele cantano la bellezza e il degrado di un posto senza pari.

In alto, la cima del Vesuvio e il perenne filo di fumo ad ammonire su un destino incombente e, giù, il sontuoso lungomare con l’appendice del Castel dell’Ovo. Il monito della Ginestra leopardiana su un progresso illusorio dalle pendici del Vulcano e, insieme, il più grande poeta augusteo del “Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc Parthenope”. Virgilio Marone e Giacomo Leopardi, stretti dentro l’eterno perimetro napoletano.

E se la Napoli popolare “tre cose tene e belle”, come recita il motto di Attanasio, pasticceria tra le più ricercate, vicina alla Stazione, e le tre cose sono ‘o mare ‘o Vesuvio e ‘e sfogliatelle, è perché il fascino del quotidiano irretisce al di là dei Musei, Piazze, Chiese meravigliose. Nei luoghi dove la cultura si fa davanti a “na tazzulella ‘e cafè”, dove il dialogo è incontro, battuta, uocchie e maluocchie, magari davanti allo scorcio con l’arco di S. Gregorio Armeno, la via degli eterni presepi, e lungo la ferita di Spaccanapoli, divisa e unita nella migliore dialettica.

Intanto era nel Caffè Gambrinus, gioiello in stile liberty, stucchi, affreschi e vetri di Murano, che convergeva il meglio dell’intelligencija del secolo scorso, da d’Annunzio a Wilde a Croce. E proprio sui marmi del Caffè pare che d’Annunzio abbia scritto, a matita, in napoletano, la canzone ‘A vucchella, musicata da Tosti e incisa da Caruso. E sempre nel “caffè delle sette porte” - per gli ingressi che si aprivano su tre strade - ci fu nel 1892 l’inaugurazione del Mattino di Napoli, il giornale pensato da Matilde Serao e Edoardo Scarfoglio. Mentre già nel 1885 l’Hotel Vesuvio - costruito nel 1882 dal finanziere belga Oscar du Mesnil – ebbe ospite, fra gli altri, Guy de Maupassant che degli abitanti fece un ritratto mirabile, certificandone l’originalità: “questa popolazione rende unica questa città!”

Da parte sua, il ristorante La Bersagliera, fondato da Emilia del Tufo sulla banchina del porticciolo di Santa Lucia, di fronte a Castel dell'Ovo e ai piedi dei Grandi Alberghi, ha una storia altrettanto interessante. Per Eduardo e Totò, e tutti gli innumerevoli ospiti ricordati nel libro delle grandi firme, la cucina prevedeva il meglio dell’arte culinaria napoletana, dagli spaghetti alle vongole fino al coccio all'acqua pazza, alla frittura di paranza, per finire con la pastiera, simbolo di fecondità. Cose che si ripetono anche da Ciro a Santa Brigida dove si recavano Marconi e Toscanini, d’Annunzio e Pirandello, Tebaldi, Gassman, Totò, Loren, Ingrid Bergman. Perché Napoli, con tanti stranieri, è tappa del turismo internazionale e Posillipo, la Riviera di Chiaia, Santa Lucia e il Corso Vittorio Emanuele attraggono chi non s’appaga di un’umanità rivelata ma ricerca chi riserva ogni giorno nuove sorprese.

 

 

 

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                                         PARIGI, quel dolce per pittori e filosofi

 

À Paris, canta Yves Montand, c’è sempre la Senna, à n’importe quelle heure. Con i suoi ospiti che la guardano negli occhi. E gli amanti. Una sinuosa signora che accompagna chi sceglie di visitare una delle più affascinanti capitali europee. Col sole e col vento, e la pioggia sottile che inzuppa i capelli. Mentre lei scorre lungo il viale Alessandro III, sotto il putto dorato, proteso oltre la balaustra. O dietro Place de Clemenceau e la scritta su un letto di lacca color indaco. Quando le sue acque pallide lambiscono Notre Dame e il ponte con i lucchetti dell’amore.

Alla sua destra e sinistra mondi paralleli. Montmartre e la via per la Butte, la collina del Sacré Coeur, il prato lungo la scalinata e le viole che colorano gli occhi annebbiati dal grigio dell’inverno. Nel cimitero del quartiere, Stendhal, Degas, Alexandre Dumas, Gautier, de Goncourt, Heine, Offenbach, Zola, Truffaut riecheggiano, con immagini parole e musica, la Parigi antica dei fasti e della povertà. Non lontano, le scritte chiassose e sghembe del bistrot La mère Catherine e del Café Le Chinon. Il rosso di un bicchiere di vino, il profumo del filet de boeuf, il sapore di una salade niçoise. Fuori la scia dolce di uno sciame di pâtisserie.

All’inizio del ‘900 erano altri locali ancora: Le Chat Noir, il Bistrot della Mère Bataille, la Nouvelle Athènes. Oggi la stessa piazza, gli artisti di strada e i pittori, ieri gli Impressionisti e gli esponenti delle avanguardie, Picasso, Severini e Brancusi, e il viottolo che s’apre d’improvviso, allora come ora, in una notte illuminata dai bianchi lampioni, due marciapiedi a lato e una ringhiera al centro.

Nel premier arrondissement, La Rue de Rivoli, più elegante di sempre, descrive un’altra Parigi, il giallo senape di La cure Gourmande, i suoi cioccolati e biscotti, gli abiti eleganti dietro sobrie vetrine. Di fronte, Les Tuileries e la terra battuta e Place de la Concorde. Da lassù nere sagome sottili, uomini e donne bagnati dal sole sullo sfondo del laghetto azzurro. Gli alberi alti e spogli. E il Louvre.

À Paris, canta Yves Montand, al café si vede chiunque, che beve qualcosa, qui parle avec ses mains, che gesticola di continuo. Nei café e nei bistrot, da Montmartre a Montparnasse. La storia di sempre, anche di un tempo perduto. I bistrot e Parigi, la sua anima popolare e intellettuale, turistica e letteraria. Il mito e il folklore, e una tradizione che tesse il filo della memoria, oltre i tetti dei quartieri, dove café, bistrot, brasserie si stringono la mano nel ricordo di Sartre e De Beauvoir, e del tempo lungo dentro la Coupole, il Flore, il Deux Magots o la più antica Lipp.

Ancora prima, Modigliani, l’amico Utrillo, le sbornie di quasi ogni sera nei bistrot e cabaret, le discussioni accanite sull’arte, la poesia, la musica. Con artisti e poeti provenienti da tutta l’Europa. E dall’America Miller, Hemingway, Scott Fitzgerald. Insieme, alla fine del primo decennio, a Montparnasse, il nuovo quartiere degli artisti, all’estremità della cerchia urbana. Con l’Histria Hôtel di rue Campagne Première, asilo notturno di De Chirico, Rilke, Majakovskij.

Se tutto ha un inizio, l’inizio del percorso può essere rue Delambre, e l’Auberge de Venise, il famoso Dingo, luogo d’incontro della “generazione perduta” di Gertrude Stein. Sono gli Anni Venti e intorno a un tavolo Jake, Mike e Miss Brett preparano un viaggio a Pamplona. E allora “Fiesta” sia. Un po’ finta e un po’ no. Anche per Ernest e l’amata Hadley. Sotto il cielo di Parigi. Tra un café crème o un whisky, dentro un café o un bistrot. All’inizio di una lunga storia d’amore.

 

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